Tre solitudini, tre solitudini mischiate alla pena. Un girotondo di perdenti. Triangolo di solitudini, in un rettangolo di storia. Personaggi che sembrano fantasmi: si muovono come le foglie degli alberi di notte. Un racconto a più voci, intessuto di urla gridate sottovoce.
Tre personaggi – ombre in una locanda senza avventori, ripetono ossessivamente una storia che – loro dicono – li ha attraversati e li ha resi testimoni per sempre. La storia di un’ubriacatura, di un ferimento, di un Cassio degradato e di un poco nobile Otello. “E Desdemona? Cosa ne è di Desdemona?” Ma questo non è che un pretesto, come in un metateatro scalcinato, per giocare a essere ancora qualcosa, qualcuno, in un riflesso di specchi e di identità: Lucio, il Capitano/Otello; la ruvida e seducente ostessa Magdalena/Desdemona; l’oscuro e multilingue Becchino/in parte Cassio e in parte Iago.
Solo un pretesto, una ricerca al buio, un tentativo inesperto – e per questo incurante di sconfinare di tanto in tanto nell’eccesso della farsa o del melodramma – di riconquistare ancora un tempo, un respiro, un corpo, una carne da risanare, per liberare l’anima dalla loro di storia irrisolta, dal loro sfuggire a se stessi, dal loro eterno tentativo di svelamento del dramma celato che li abita.
Spine nasce da una necessità espressiva. Dall’esigenza di confrontarsi con una storia alta a partire dai margini, dai vuoti non raccontati, dalla volontà di indagare strade normalmente ignorate, sia in termini di drammaturgia che di ricerca linguistica.
La lingua è strumento mobile, dominata dall’uso e dalla funzione, nella quale il “significante” si trasforma, assume colori e suoni nuovi, spiazzanti, ma sempre ai fini di un rafforzamento di “significato”, mai per se stessi, mai per pura ostentazione o funambolismo linguistico.
I dialetti, le lingue anzi, si mescolano. Sardo, siciliano, calabrese (non per caso lingue madri degli attori), disposti a un uso alto, sanno di vita, mai di quotidiano. Nell’area rimane questo impasto strano di accenti e di lingue, che ha il suo culmine nella parlata del becchino, mescolanza inventata, non lingua dei porti, ma dei morti, zeppa di ultime parole a essi rubate, dai loro denti disincastrate (francesismi, inglesismi, spagnolismi, germanismi riutilizzati più per fascinazione di suono che di senso).